POST 336
Con una decisione pubblicata
l’11/1/2018 (ordinanza n. 450), la Corte di Cassazione rivisita il requisito
dell’inerenza nella determinazione del reddito d’impresa indicando, quale
corretto criterio interpretativo, il principio per cui i costi deducibili sono
quelli correlati all’attività in concreto esercitata dal soggetto passivo, indipendentemente
dal fatto che gli stessi abbiano contribuito ad incrementare i ricavi. Nel caso
esaminato, la Corte di Cassazione ha giudicato indeducibili le royalties pagate
per l’uso di un marchio di proprietà della controllante non perché fosse
mancata la dimostrazione di una concreta utilità della spesa ai fini della
produzione del reddito, -come invece affermato dalla sentenza di secondo grado-
ma per il fatto che l’uso del marchio risultava “irrelato rispetto all’attività concreta dell’impresa”, la quale si
svolgeva per il 92,5% del fatturato con società del gruppo. In questa ipotesi,
secondo la Corte di Cassazione, il costo appariva estraneo all’attività ovvero
“insensibile all’efficacia economica” dell’utilizzo del marchio.
La decisione della Corte Suprema di
sganciare la deducibilità delle spese dal vantaggio arrecato all’impresa (sia
pure in termini anche solo potenziali e/o indiretti) segna uno sviluppo
evolutivo nella definizione del concetto dell’inerenza. Dopo l’abbandono dell’originaria
impostazione (meccanicistica), per cui dovevano considerarsi inerenti soltanto
i costi “necessari a produrre i ricavi”, la sentenza in rassegna si propone di
superare anche l’interpretazione (più volta avanzata dalla stessa Corte di
Cassazione) secondo cui l’inerenza (correttamente) collegata all’attività
dell’impresa (“non riducibile, perciò, ad
una relazione necessaria del costo con il reddito o i ricavi”) richiederebbe
pur sempre un “legame tra il costo e
l’attività d’impresa secondo un parametro d’utilità, all’interno di una
relazione deterministica che sottende rapporti di causalità”.
Dichiarando di volersi discostare da tale
orientamento, la sentenza precisa a) che “l’impiego
del criterio utilitaristico non giova alla corretta esegesi della nozione di
inerenza, in quanto il concetto aziendalistico e quello civilistico di spesa
non sono necessariamente legati all’elemento dell’utilità, essendo
configurabile quale costo anche ciò che, nel singolo caso, non reca utilità
all’attività d’impresa”; b) che “viceversa,
l’inerenza deve essere apprezzata attraverso un giudizio qualitativo, scevro da
riferimenti ai concetti di utilità o vantaggio, afferenti ad un giudizio
quantitativo, e deve essere distinta anche dalla nozione di congruità del costo”;
c) che, “in questo quadro concettuale”,
“l’evidenziazione di un comportamento
antieconomico in relazione all’imposta sui redditi e dell’Iva non può
giustificarsi identificando l’inerenza con la sproporzione o l’incongruità dei
costi”.
I principi sopra esposti appaiono
particolarmente significativi e rilevanti. Essi, se confermati dalla
giurisprudenza di legittimità, potranno influenzare positivamente i numerosi
contenziosi pendenti, nei quali il fisco contesta l’indeducibilità dei costi
per difetto di inerenza, sotto l’aspetto della dimensione quantitativa della
spesa ritenuta eccessiva rispetto ai ricavi dell’impresa. L’antieconomicità della
spesa, come pure la sua incongruenza, possono costituire indizi rivelatori
della mancanza di inerenza, ma non si identificano con essa.
Claudio Tiberti
Avvocato Tributarista